pubblicato su "Alias" - Il manifesto del 26 maggio 2007
Lorenzo Esposito e Donatello Fumarola
Vittorio Cottafavi - La conquista dell’immagine (televisiva)
Quando, fra il 1981 e il 1985, Vittorio Cottafavi firma i suoi due ultimi film prodotti dalla Rai, Maria Zef e Il diavolo sulle colline, la televisione è già lo specchio di un mondo in frantumi. La riduzione di spazi di pensiero, parallela all’occupazione dello spazio-tempo da parte dell’ideologia dell’inserzione, riguarda da vicino la rabbia e il dolore di queste immagini ultime. Immagini perfette, che dell’esperienza cine-televisiva, forniscono la lezione magistrale attraverso il racconto profetico della fine della civiltà contadina (Maria Zef), e si innestano nel punto nevralgico della crisi - come dimostrano i nostri giorni, mai rientrata del tutto - politica, economica e sociale italiana (la Torino del 1937 raccontata da Pavese ne Il diavolo sulle colline). Immagini perfettamente politiche dunque, per la loro capacità di trovare un tempo filmico, di riconsegnare un sonoro a un paesaggio muto, a una memoria dispersa, a un’umanità estranea. Immagini che esaltano la parola con piglio straubiano, recuperando alla verbalità la forza culturale del conflitto, della differenza, superando d’un balzo i germi pericolosissimi dell’indolenza, della miseria, e modellando un lascito malinconico, ma anche incline al risveglio, alla ripresa, contrario all’inerzia.
Non diversamente da quanto accadutogli lungo tutta la sua carriera, Cottafavi faceva fronte all’ulteriore isolamento, al reiterarsi dell’equivoco che voleva la sua immagine, così severa e distaccata, una buona composizione e niente più, scambiandone la volontà straniata per forma chiusa e inerte, mentre invece, insieme al lavoro parallelo di Rossellini, ad oggi resta il tentativo più intenso e lucido di difesa dell’uomo-spettatore. Nessuno come Cottafavi si è preoccupato di rispettare la posizione semplice di chi osserva e di farne il fondamento di una storia di cinema. Nessuno come lui sapeva che l’immagine precede il film, ed è già parte del mondo di chi si accinge a guardarlo. Così risuona il suo insegnamento: “Per paradosso diciamo: invece di insegnare la storia del mondo, facciamo degli spettacoli che danno la visione del mondo”.
La verità delle apparenze
È forse inevitabile, per colui che sperimenta la doppia faccia cine-televisiva, innestare il proprio discorso direttamente nell’andare in crisi del mondo (di quanto del mondo appare) e verificarne le possibilità di resistenza e di penetrazione rispetto alla superficie. Allo stesso modo in cui la tv, fin dall’inizio, e pur nella sua brutale espressività, si rivela più abissalmente filmica del film.
Una dialettica e uno scivolamento intrinsechi alla scena televisiva, alla sua natura, al suo potenziale comprendere (e farsi comprendere da) ogni possibile scenario, di cui Cottafavi ripercorre le tappe, dal teatral-narrativo al cinetico puro, tracciando anzitutto un gioco di sponde fra interno e esterno, che risulta immediatamente deviante rispetto a cosa era e a cosa ancora è la televisione di messa in scena (dalle prime pirotecniche ‘cose’ televisive, Sette piccole croci e Hansel e Gretel, del 1957, a La spada di Damocle, del ‘58, La trincea, del ‘61, Il mondo è una prigione, del ‘62, fino a Con gli occhi dell’occidente, del ‘79). È come se fosse proprio l’automatico scambio fra sceneggiato e teatro filmato, a scandire la possibilità storica incarnata dal piccolo schermo: prima discussa attraverso l’esplicitazione di questo scambio, e poi portata sul punto limite di messa in crisi, oltre il quale si apre la strada che esce dallo studio, dissolvendone la matrice teatrale e proiettandosi verso quel fuoricampo che, negli anni a venire, la tv ha capitalizzato ferocemente (facendo del mondo fuori un enorme studio televisivo).
Per Cottafavi questo anelito, questa spinta a fuoriuscire, è già tutta sintetizzata nel percorso non neorealista degli inizi del suo cinema - parallelamente a Germi, Lattuada, Antonioni, Pietrangeli.. - depositario piuttosto della lezione di René Clair, Lubitsch, Capra, Cocteau, e soprattutto di Renoir (e per altro verso di John Ford, King Vidor, Raoul Walsh..): valga per tutti La fiamma che non si spegne (del 1949), un film che sminuisce a ogni scena il proprio ‘contenuto’ (la celebrazione delle gesta del carabiniere Salvo D’Acquisto durante l’occupazione tedesca), assunto come maschera dietro cui si scatena la furia realizzativa sperimentale e il gusto geometrico di un cineasta grande astrattista, che avrebbe trovato sponde migliori, e avuto sicuramente più fortuna, nella Hollywood del tempo.
Quando poi nel ‘63 Cottafavi confonde definitivamente le cose, infrangendo gli argini degli studi televisivi per andare a girare interamente in esterni con una piccola troupe e una camera 16mm Il taglio del bosco, dimostra come a interessargli non sia tanto il “realismo” in sé - anche se gli offre migliori chances di riuscita rispetto agli esiti spesso incerti dei lavori realizzati negli studi Rai - quanto invece le possibilità di messa in scena in un set reale, di un discorso sul cinema che l’ostracismo del sistema produttivo italiano gli aveva impedito di proseguire (per questo, non per vocazione o per volontà, approdò in televisione). Discorso mai interrotto, ma rilanciato ogni volta e condotto fino all’atipica soluzione all’interno della serie “Teatro inchiesta”, dove Cottafavi, con Missione Wiesenthal e Il complotto di luglio (entrambi del ‘67) arriva a sceneggiare il repertorio, mostrando come tutto in tv - come tutta la tv - non sia altro che repertorio (a partire dal presentatore, ‘personaggio’ della vicenda non meno di Adolf Eichmann o di Hitler). In questo senso è come se Cottafavi, per altra via (opposta?), giungesse alla medesima concezione enciclopedica di Rossellini, solo, a partire da una procedura filosofica primariamente e precisamente mediata dalla questione tecnica, questione che approfondirà e sonderà inventando soluzioni che la televisione ignorava, contribuendo non poco a dotarla di strumenti linguistici. Tra i due lo scarto è sottile. Cottafavi è cinema che per sapere deve sperimentare il cinema. Rossellini è cinema che per sapere deve sperimentare il sapere (entrambi finendo per sapere in quanto saputi dall’immagine).
Le in-apparenze del vero
Ecco perché verità e menzogna sono un buon punto di partenza, la trama da sviluppare e sciogliere attraverso una conquista dell’immagine (è il titolo di uno dei suoi testi teorici), ossia del luogo in cui le apparenze possono trovare una verità. Ma non tutte le verità (storiche, morali o personali) trovano una trasparenza. Per Cottafavi è necessario anzitutto un lavoro duplice sul testo, sulla scrittura come possibilità del classico (che sia Sofocle, Euripide, Eschilo, Tolstoj, Dostoevski, Conrad, Greene, Chesterton, Pavese o Pirandello), e sul mezzo; rimessi in scena attraverso la consapevolezza (dei limiti) di una tecnica che li possa rappresentare, alludono e più spesso toccano una zona franca - di testualità, di immagini, di personaggi - che provoca uno scarto imprevisto, interno all’immagine, come se ne venisse continuamente preparato e poi filmato il crollo, il collasso di una narrazione cosiddetta televisiva. Sono esemplari in questo senso Le Troiane, Don Giovanni, o Il processo di Santa Teresa del Bambino Gesù, tutti realizzati nel ‘67, e ancora I lupi, del ‘69, Antigone, del ‘71, e I persiani, del ‘75, dove l’oggetto dello spettacolo viene spogliato dal suo mettersi in scena, e quello che più sembra interessare Cottafavi è il rapporto nudo dello spettatore con la scena tecnica (con il suo vuoto), la cui verità coincide con la sua combustione. Le Troiane è la messa in scena che finge la propria prova generale (anticipando il Rivette di Out 1), abbattendo il complotto comunicativo sotteso alla tv con l’intervallo annunciato da una voce fuori campo, esibito, che diventa per forza di cose il momento ‘clou’ dello spettacolo sospeso, con gli attori che fanno una pausa e si fumano una sigaretta per riposare e ritrovare la concentrazione. Uno spazio aperto assoluto in cui non c’è più testo (già manca la scena: lo studio di via Teulada dove è girato è totalmente spoglio), ma solo quest’intermezzo della durata, dove ognuno può scegliere di interrompere, distrarsi, fissarsi su un punto morto (la televisione?).
Il set diventa in Cottafavi lo spazio dove ogni verità deve poter apparire. Lo spazio e non il tempo, o lo spazio come tempo, come passaggio da una condizione a un’altra. Come se - nella convinzione (ingenua forse, ma è un merito) di una presunta medesima idoneità cine-televisiva - venisse a galla ciò che è sempre sbilanciato e conflittuale nell’immagine in sé (Cottafavi insiste a più riprese: il linguaggio è lo stesso, anche se della tv accusa le pesantezze, certe tendenze pachidermiche - “vorremmo parlare di linguaggio ma ancora oggi non ne siamo in grado”).
Allora, attraverso tutti questi interni e interiorità cave, e tutti questi esterni marziani (che dire della follia inventiva della Fantarca e della stralunata genialità di Operazione Vega? E della serialità unica e irripetibile dei Racconti di Padre Brown, di Quinta colonna, di Una pistola in vendita? O ancora di quel kolossal minimale e spietato che è Cristoforo Colombo, in bilico tra Welles, Herzog e de Oliveira, che avrà un seguito ideale nel pre-coppoliano La follia di Almayer?): esiste un metodo Cottafavi?
Certo non è solo Bertold Brecht, riproposto in una pratica che, a ben vederla oggi, era già altro allora. Brecht è stato la sponda immediata per uno che ha intuito la natura celibe di ogni immagine, che fingeva ogni volta il realismo del décor, dei costumi e del lavoro di saturazione degli eventi, per smascherare il ‘fantastico’ che c’è in ogni apparenza reale. Lo spettatore, allora, frana perché frana la verità, e non sarà più possibile identificarsi, bisognerà invece attivare tutti i lati della storia, tornare a spendersi sul già visto (e là dove ci si aspetterebbe un remake, come nel caso dei due Antigone, uno del ‘58 e l’altro del ‘71, o dei molti ritorni sulle vicende della Resistenza, o sui due Zoo di vetro del ’63 e del ’68, Cottafavi gioca invece a rifare disfacendo).
Per questo i suoi film si concentrano sul cambiamento, sullo stato mutante delle cose e degli accadimenti (lo dice bene Michel Mourlet, in una bella intervista anni sessanta: Cottafavi “sfrutta sistematicamente l’insediamento della crisi”). Per questo si interessa del film storico-mitologico (a cominciare dai film per il cinema Le legioni di Cleopatra, La rivolta dei gladiatori, Messalina Venere Imperatrice, I cento cavalieri), che al di là della giusta interpretazione post-felliniana (il film storico come film di fantascienza), pone un problema temporale: cos’è contemporaneo? In cosa sono contemporanei? Cioè non attuali, non ‘classici’, ma presi in un testa coda che la televisione col suo flusso a-temporale spinge al massimo grado di in-apparenza. In questo, per esempio, I cento cavalieri (1964) è già il film più vicino alla televisione di Rossellini, quello che più l’anticipa (allo stesso modo in cui Traviata ‘53 poteva essere accomunato a La paura..). “Bisogna essere contemporanei dell’avvenimento che si sta per raccontare” (Cottafavi). Rossellini diceva: fare la storia per intraprendere una sorta di rammendo della specie umana. Cottafavi è sulla stessa linea: rifare la storia per costringere l’uomo a prendersi in esame. Di chi è questa frase: “Il telefilm dovrebbe essere essenzialmente una informazione sull’uomo”, di chi dei due?
segunda-feira, 15 de fevereiro de 2010
VITTORIO COTTAFAVI
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2 comentários:
Magnífico este texto, Bruno, del que no tenía noticia.
Miguel Marías
obrigada pelas referências, outra vez
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