pubblicato su "Alias" - Il manifesto del 26 maggio 2007
Lorenzo Esposito e Donatello Fumarola
Vittorio Cottafavi - La conquista dell’immagine (televisiva)
Quando, fra il 1981 e il 1985, Vittorio Cottafavi firma i suoi due ultimi film prodotti dalla Rai, Maria Zef e Il diavolo sulle colline, la televisione è già lo specchio di un mondo in frantumi. La riduzione di spazi di pensiero, parallela all’occupazione dello spazio-tempo da parte dell’ideologia dell’inserzione, riguarda da vicino la rabbia e il dolore di queste immagini ultime. Immagini perfette, che dell’esperienza cine-televisiva, forniscono la lezione magistrale attraverso il racconto profetico della fine della civiltà contadina (Maria Zef), e si innestano nel punto nevralgico della crisi - come dimostrano i nostri giorni, mai rientrata del tutto - politica, economica e sociale italiana (la Torino del 1937 raccontata da Pavese ne Il diavolo sulle colline). Immagini perfettamente politiche dunque, per la loro capacità di trovare un tempo filmico, di riconsegnare un sonoro a un paesaggio muto, a una memoria dispersa, a un’umanità estranea. Immagini che esaltano la parola con piglio straubiano, recuperando alla verbalità la forza culturale del conflitto, della differenza, superando d’un balzo i germi pericolosissimi dell’indolenza, della miseria, e modellando un lascito malinconico, ma anche incline al risveglio, alla ripresa, contrario all’inerzia.
Non diversamente da quanto accadutogli lungo tutta la sua carriera, Cottafavi faceva fronte all’ulteriore isolamento, al reiterarsi dell’equivoco che voleva la sua immagine, così severa e distaccata, una buona composizione e niente più, scambiandone la volontà straniata per forma chiusa e inerte, mentre invece, insieme al lavoro parallelo di Rossellini, ad oggi resta il tentativo più intenso e lucido di difesa dell’uomo-spettatore. Nessuno come Cottafavi si è preoccupato di rispettare la posizione semplice di chi osserva e di farne il fondamento di una storia di cinema. Nessuno come lui sapeva che l’immagine precede il film, ed è già parte del mondo di chi si accinge a guardarlo. Così risuona il suo insegnamento: “Per paradosso diciamo: invece di insegnare la storia del mondo, facciamo degli spettacoli che danno la visione del mondo”.
La verità delle apparenze
È forse inevitabile, per colui che sperimenta la doppia faccia cine-televisiva, innestare il proprio discorso direttamente nell’andare in crisi del mondo (di quanto del mondo appare) e verificarne le possibilità di resistenza e di penetrazione rispetto alla superficie. Allo stesso modo in cui la tv, fin dall’inizio, e pur nella sua brutale espressività, si rivela più abissalmente filmica del film.
Una dialettica e uno scivolamento intrinsechi alla scena televisiva, alla sua natura, al suo potenziale comprendere (e farsi comprendere da) ogni possibile scenario, di cui Cottafavi ripercorre le tappe, dal teatral-narrativo al cinetico puro, tracciando anzitutto un gioco di sponde fra interno e esterno, che risulta immediatamente deviante rispetto a cosa era e a cosa ancora è la televisione di messa in scena (dalle prime pirotecniche ‘cose’ televisive, Sette piccole croci e Hansel e Gretel, del 1957, a La spada di Damocle, del ‘58, La trincea, del ‘61, Il mondo è una prigione, del ‘62, fino a Con gli occhi dell’occidente, del ‘79). È come se fosse proprio l’automatico scambio fra sceneggiato e teatro filmato, a scandire la possibilità storica incarnata dal piccolo schermo: prima discussa attraverso l’esplicitazione di questo scambio, e poi portata sul punto limite di messa in crisi, oltre il quale si apre la strada che esce dallo studio, dissolvendone la matrice teatrale e proiettandosi verso quel fuoricampo che, negli anni a venire, la tv ha capitalizzato ferocemente (facendo del mondo fuori un enorme studio televisivo).
Per Cottafavi questo anelito, questa spinta a fuoriuscire, è già tutta sintetizzata nel percorso non neorealista degli inizi del suo cinema - parallelamente a Germi, Lattuada, Antonioni, Pietrangeli.. - depositario piuttosto della lezione di René Clair, Lubitsch, Capra, Cocteau, e soprattutto di Renoir (e per altro verso di John Ford, King Vidor, Raoul Walsh..): valga per tutti La fiamma che non si spegne (del 1949), un film che sminuisce a ogni scena il proprio ‘contenuto’ (la celebrazione delle gesta del carabiniere Salvo D’Acquisto durante l’occupazione tedesca), assunto come maschera dietro cui si scatena la furia realizzativa sperimentale e il gusto geometrico di un cineasta grande astrattista, che avrebbe trovato sponde migliori, e avuto sicuramente più fortuna, nella Hollywood del tempo.
Quando poi nel ‘63 Cottafavi confonde definitivamente le cose, infrangendo gli argini degli studi televisivi per andare a girare interamente in esterni con una piccola troupe e una camera 16mm Il taglio del bosco, dimostra come a interessargli non sia tanto il “realismo” in sé - anche se gli offre migliori chances di riuscita rispetto agli esiti spesso incerti dei lavori realizzati negli studi Rai - quanto invece le possibilità di messa in scena in un set reale, di un discorso sul cinema che l’ostracismo del sistema produttivo italiano gli aveva impedito di proseguire (per questo, non per vocazione o per volontà, approdò in televisione). Discorso mai interrotto, ma rilanciato ogni volta e condotto fino all’atipica soluzione all’interno della serie “Teatro inchiesta”, dove Cottafavi, con Missione Wiesenthal e Il complotto di luglio (entrambi del ‘67) arriva a sceneggiare il repertorio, mostrando come tutto in tv - come tutta la tv - non sia altro che repertorio (a partire dal presentatore, ‘personaggio’ della vicenda non meno di Adolf Eichmann o di Hitler). In questo senso è come se Cottafavi, per altra via (opposta?), giungesse alla medesima concezione enciclopedica di Rossellini, solo, a partire da una procedura filosofica primariamente e precisamente mediata dalla questione tecnica, questione che approfondirà e sonderà inventando soluzioni che la televisione ignorava, contribuendo non poco a dotarla di strumenti linguistici. Tra i due lo scarto è sottile. Cottafavi è cinema che per sapere deve sperimentare il cinema. Rossellini è cinema che per sapere deve sperimentare il sapere (entrambi finendo per sapere in quanto saputi dall’immagine).
Le in-apparenze del vero
Ecco perché verità e menzogna sono un buon punto di partenza, la trama da sviluppare e sciogliere attraverso una conquista dell’immagine (è il titolo di uno dei suoi testi teorici), ossia del luogo in cui le apparenze possono trovare una verità. Ma non tutte le verità (storiche, morali o personali) trovano una trasparenza. Per Cottafavi è necessario anzitutto un lavoro duplice sul testo, sulla scrittura come possibilità del classico (che sia Sofocle, Euripide, Eschilo, Tolstoj, Dostoevski, Conrad, Greene, Chesterton, Pavese o Pirandello), e sul mezzo; rimessi in scena attraverso la consapevolezza (dei limiti) di una tecnica che li possa rappresentare, alludono e più spesso toccano una zona franca - di testualità, di immagini, di personaggi - che provoca uno scarto imprevisto, interno all’immagine, come se ne venisse continuamente preparato e poi filmato il crollo, il collasso di una narrazione cosiddetta televisiva. Sono esemplari in questo senso Le Troiane, Don Giovanni, o Il processo di Santa Teresa del Bambino Gesù, tutti realizzati nel ‘67, e ancora I lupi, del ‘69, Antigone, del ‘71, e I persiani, del ‘75, dove l’oggetto dello spettacolo viene spogliato dal suo mettersi in scena, e quello che più sembra interessare Cottafavi è il rapporto nudo dello spettatore con la scena tecnica (con il suo vuoto), la cui verità coincide con la sua combustione. Le Troiane è la messa in scena che finge la propria prova generale (anticipando il Rivette di Out 1), abbattendo il complotto comunicativo sotteso alla tv con l’intervallo annunciato da una voce fuori campo, esibito, che diventa per forza di cose il momento ‘clou’ dello spettacolo sospeso, con gli attori che fanno una pausa e si fumano una sigaretta per riposare e ritrovare la concentrazione. Uno spazio aperto assoluto in cui non c’è più testo (già manca la scena: lo studio di via Teulada dove è girato è totalmente spoglio), ma solo quest’intermezzo della durata, dove ognuno può scegliere di interrompere, distrarsi, fissarsi su un punto morto (la televisione?).
Il set diventa in Cottafavi lo spazio dove ogni verità deve poter apparire. Lo spazio e non il tempo, o lo spazio come tempo, come passaggio da una condizione a un’altra. Come se - nella convinzione (ingenua forse, ma è un merito) di una presunta medesima idoneità cine-televisiva - venisse a galla ciò che è sempre sbilanciato e conflittuale nell’immagine in sé (Cottafavi insiste a più riprese: il linguaggio è lo stesso, anche se della tv accusa le pesantezze, certe tendenze pachidermiche - “vorremmo parlare di linguaggio ma ancora oggi non ne siamo in grado”).
Allora, attraverso tutti questi interni e interiorità cave, e tutti questi esterni marziani (che dire della follia inventiva della Fantarca e della stralunata genialità di Operazione Vega? E della serialità unica e irripetibile dei Racconti di Padre Brown, di Quinta colonna, di Una pistola in vendita? O ancora di quel kolossal minimale e spietato che è Cristoforo Colombo, in bilico tra Welles, Herzog e de Oliveira, che avrà un seguito ideale nel pre-coppoliano La follia di Almayer?): esiste un metodo Cottafavi?
Certo non è solo Bertold Brecht, riproposto in una pratica che, a ben vederla oggi, era già altro allora. Brecht è stato la sponda immediata per uno che ha intuito la natura celibe di ogni immagine, che fingeva ogni volta il realismo del décor, dei costumi e del lavoro di saturazione degli eventi, per smascherare il ‘fantastico’ che c’è in ogni apparenza reale. Lo spettatore, allora, frana perché frana la verità, e non sarà più possibile identificarsi, bisognerà invece attivare tutti i lati della storia, tornare a spendersi sul già visto (e là dove ci si aspetterebbe un remake, come nel caso dei due Antigone, uno del ‘58 e l’altro del ‘71, o dei molti ritorni sulle vicende della Resistenza, o sui due Zoo di vetro del ’63 e del ’68, Cottafavi gioca invece a rifare disfacendo).
Per questo i suoi film si concentrano sul cambiamento, sullo stato mutante delle cose e degli accadimenti (lo dice bene Michel Mourlet, in una bella intervista anni sessanta: Cottafavi “sfrutta sistematicamente l’insediamento della crisi”). Per questo si interessa del film storico-mitologico (a cominciare dai film per il cinema Le legioni di Cleopatra, La rivolta dei gladiatori, Messalina Venere Imperatrice, I cento cavalieri), che al di là della giusta interpretazione post-felliniana (il film storico come film di fantascienza), pone un problema temporale: cos’è contemporaneo? In cosa sono contemporanei? Cioè non attuali, non ‘classici’, ma presi in un testa coda che la televisione col suo flusso a-temporale spinge al massimo grado di in-apparenza. In questo, per esempio, I cento cavalieri (1964) è già il film più vicino alla televisione di Rossellini, quello che più l’anticipa (allo stesso modo in cui Traviata ‘53 poteva essere accomunato a La paura..). “Bisogna essere contemporanei dell’avvenimento che si sta per raccontare” (Cottafavi). Rossellini diceva: fare la storia per intraprendere una sorta di rammendo della specie umana. Cottafavi è sulla stessa linea: rifare la storia per costringere l’uomo a prendersi in esame. Di chi è questa frase: “Il telefilm dovrebbe essere essenzialmente una informazione sull’uomo”, di chi dei due?
segunda-feira, 15 de fevereiro de 2010
VITTORIO COTTAFAVI
domingo, 14 de fevereiro de 2010
Le Don des langues
Le Tigre du Bengale de Fritz Lang, revu en version originale allemande au "Cinéma de minuit" sur FR3, est le tombeau somptueux de toute une époque du cinéma. C'est le point final d'une langue commune mise au point par Hollywood au début des années 30 avec le cinéma parlant. Une langue qui, pendant une dizaine d'années, va se donner les moyens de développer soit de grandes fictions sociales, soit des modèles constitutifs de genres cinématographiques (le policier, la comédie, la comédie musicale, le western, le film historique), soit de grands romans illustrés (David Copperfield, Peter Ibbetson, Autant en emporte le vent). Vers le milieu des années 40 - après les années de cinéma militant pour l'engagement des U.S.A. dans la guerre - cette langue commune s'emploie soudain à raffiner sur elle-même et tend vers une écriture plus abstraite. On constate une économie soudaine des informations dans la narration (les journaux et surtout la télévision commencent à fournir ces informations dont les films peuvent désormais se passer) et, de plus, chaque film apprend à mieux lier le décor et la lumière avec le découpage, et découvre soudain une mise en sourdine de la théâtralité des acteurs qui, dans les années 30, devaient souvent porter leurs dialogues, comme des tirades, dans des grands décors. On serre alors les vis du récit, qui gagne en concision rythmique ce qu'il abandonne en accumulation de matériaux. Cette réduction quantitative des éléments, l'amenuisement de l'espace visuel et sonore par rapport à ces grands décors des années 30, l'emploi moins grandiloquent et plus souple de la musique, ont fait subir à l'ensemble du cinéma hollywoodien une transformation stylistique. Des films comme Monkey Business (Chérie, je me sens rajeunir) ou The Big Sky (La Captive aux yeux clairs) de Hawks ou Clash by Night (Le Démon s'éveille la nuit) de Lang, qui se situent autour de 1951, sont aujourd'hui de merveilleux archétypes de cette abstraction, de ce tour de vis donné non seulement au récit mais à toutes les composantes du film. Plus de trente ans après, aujourd'hui, nous pouvons encore emprunter le chemin qu'un cinéaste, avec l'aide de cette langue commune, a déblayé lui-même pour arriver au coeur de son sujet. Dans cette époque de la langue commune hollywoodienne, le point de vue restrictif sur la vie d'un King Vidor qui partage le monde en chefs prédestinés et en foules infantiles (à l'exception du très beau An American Romance), ou encore le coup de force simplificateur d'un Elia Kazan hypertrophiant l'acteur au détriment de la polyphonie du plan, cette réduction du point de vue sur la vie et sur le cinéma, qui ne capte d'un sujet que des traits grossiers, qui préfère à l'ambiguïté des conduites humaines des images univoques, est devenue aujourd'hui une loi esthétique ou plutôt un consensus frileux. Les paysages et les milieux sociaux de la planète tout entière sont autant de casiers illustrables d'un immense réservoir, mais la connaissance que nous pouvons avoir des contenus authentiques est si faible, la communication potentielle si truquée d'avance, la masse d'informations disponibles si absurdement étendue, le temps d'assimilation des connaissances et des expériences si dérisoirement inférieur à leur quantité, que, la langue commune ayant dépéri à la fin des années 50 (en partie par affaiblissement de sa nécessité), c'est une nouvelle langue commune qui s'est, lentement mais sûrement, constituée: la langue du cinéma international, sorte de compromis esthétique entre la modernité des hollywoodiens et celle des européens des récentes générations. Une langue qui emprunte à la fois à l'efficacité du télé-film américain, au pragmatisme paresseux de l'audio-visuel européen (dont Rossellini fut le précurseur malheureux) et aux nouveaux langages restreints et référentiels du commerce (pubs) et du spectacle (clips), pour se constituer en prétendu instrument de communication universelle, alors qu'elle n'est qu'une rhétorique opportuniste, toute prête à capitaliser n'importe quelle technique nouvelle. Cette langue nouvelle, pour pouvoir atterrir et se faire entendre dans tous les coins de la terre, doit, par nécessité vitale, renoncer à tout particularisme stylistique, à toute singularité. Elle ne peut y parvenir qu'en s'interdisant de manifester plus que le plus petit dénominateur commun de style, de contenu et d'expression: elle doit, en tout point du globe, pouvoir être traduite, résumée, découpée en clips-annonces dans le canal inévitable de la télévision. Tel film philippin doit pouvoir être annoncé sur une chaîne suédoise et être instantanément perçu comme produit international consommable, et réciproquement tel film suédois doit être instantanément annoncé et reconnu sur une chaîne de télé philippine comme produit de même nature. Et pour que cette langue soit comprise et parlée en tout point du globe, elle ne doit employer qu'une seule catégorie d'éléments, c'est-à-dire renoncer à toute ambiguïté. Il faut, dans un film aujourd'hui, ne suivre qu'un lièvre à la fois. C'est ce que fait brillamment Woody Allen. Dans La Rose pourpre du Caire, le cinéaste passe son temps à éviter la logique dramatique des situations dont il ne nous donne que la surface. Particulièrement simpliste est sa manière de présenter les rôles distincts du personnage descendu du film noir et blanc et celui de l'acteur qui le joue. Le personnage et l'acteur restent des vignettes réglées par des critères strictement conventionnels qui les protègent des imprévus de la vie et la mécanique du scénario décide seule des gags du film dans le film: la mise en scène est impitoyablement chassée de l'ensemble du film; nous sommes dans l'audio-visuel aseptisé où rien ne consiste sauf une brillante démonstration scénaristique. Seule la séquence où Mia Farrow entre dans le vieux film est réellement filmée: à ce moment, Allen se pose des questions (à quelle distance se tenir? d'où filmer?) et y répond de façon convaicante. C'est parce qu'il ne veut à aucun autre moment s'en poser que le film est comme il est: un produit purement référentiel donc consommable. Il y a toutefois dans le monde des réalisateurs qui ne se satisfont pas de ce pauvre dénominateur commun à quoi les condamne l'industrie audio-visuelle. Aujourd'hui, tout le monde sait faire un film, peu de cinéastes osent encore être maladroits, c'est-à-dire oublient de réagir en cinéphiles. Tout le monde filme bien ou plus exactement presque tout le monde parle la Langue. Cette langue est une seconde et naturelle nature; bien peu ont ou se font un langage. Mais beaucoup de réalisateurs aiment encore assez le cinéma pour avoir envie de faire mieux que de répondre au triste appel du dénominateur commun: ils soignent l'écriture de leurs films pour se réserver un territoire personnel, et c'est peut-être cela le maniérisme, la secrète révolte contre la langue ordinaire, la nostalgie des beaux effets (lumière, décors, acteurs) d'autrefois. Mais les beaux effets ne sont rien sans les belles causes. Les belles causes, ce sont simplement les sujets. La calligraphie cinéphilique, qui est aujourd'hui l'ennoblissement de la langue ordinaire, le département aristocratique du cinéma, opère cependant loin des redoutables exigences d'un sujet et aboutit à un dandysme des contenus. Traiter un sujet aujourd'hui avec les moyens du cinéma, c'est non seulement ne pas rester dans la langue ordinaire, mais accepter de suivre plusieurs lièvres à la fois, de parler plusieurs langues. C'est d'abord parler plus. L'imperfection est aujourd'hui un signe qu'il y a plusieurs langues dans un film, la perfection n'étant que l'illusion produite par l'homogénéité. La beauté de Détective et de Adieu Bonaparte résulte en grande partie de l'emploi simultané et périlleux de ces langues, au sens propre dans le film de Chahine, au sens figuré dans Détective. Adieu Bonaparte n'appartient pas à la langue internationale ordinaire: l'énorme désordre et même la confusion (souvent on ne comprend rien au détail des événements ni à leur interaction exacte: mais la magie du cinéma, c'est aussi de se perdre sans comprendre. Comme disait Bresson: il ne s'agit pas de comprendre mais de sentir), tout cela résulte de la juxtaposition dans une même scène d'informations hétérogènes, individuelles et ethno-politiques. Ce mode de récit qui brasse discours, mouvements, traversées d'espaces, mélanges incontrôlés de jeux d'acteurs, est la façon très personnelle dont Chahine attaque son sujet et en exprime les facettes. Le personnage de Caffarelli et le déchirement auquel nous assistons entre lui et les deux frères égyptiens sont comme sont comme la partie visible d'un iceberg dont s'est approché le cinéaste. Un film n'a pas à nous montrer tout un iceberg ou toute une montagne. Un vrai film impose de manière surprenante et inoubliable le relief, la couleur, la matière, la nature d'une petite partie de l'univers. Renoir conseillait de bourrer les films sans trop penser à l'ordre ou à la clarté. Chahine filme comme s'il n'avait pas besoin de recevoir ce conseil et nous donne un film très imparfait mais inoubliable. Les films télévisuels si ambitieux de Rossellini nous donnaient l'information sur les choses, mais pas le sentiment qui pouvait les rendre à la vie. Dans Détective, une trame mabusienne est soumise au travail de recomposition d'une réalité à la fois en expansion infinie et autonome, comme si toute scorie romanesque devait être immédiatement transformée en nouvel élément de réalité (le côté Rouletabille de ce nouveau « Mystère de la chambre jaune », devient par une opération poétique, à la fois le personnage-acteur Léaud, et des plans sur des boules de billard qui roulent). Le film parvient à exprimer non seulement la totalité des maigres informations de la trame policière de départ, mais encore nous montre les opérations par lesquelles ces informations peuvent devenir des affects et suggérer tout un monde. Dans Europe 51, en filmant Ingrid Bergman, Rossellini faisait le portrait de Simone Weil. Je vous salue, Marie, par contamination du cinéaste par son sujet, parle le langage de Simone Weil. Détective, qui d'abord n'a pas de sujet mais un scénario, adopte, par méthode paranoïaque critique, la langue d'aujourd'hui et, par ce biais, trouve son personnage central, Johnny Hallyday, double de Michel Subor, « Petit soldat » vingt ans après, et en trouvant son personnage trouve son sujet: la réalité enfin éclatée qui vit son temps de vie. Mabuse a disparu: la Mafia et la ronde de l'argent menacent et frappent par intermittence. Détective, comme Amerika-rapports de classes, parle plusieurs langues. Dans ces deux films, en outre, les auteurs aiment spirituellement et sensuellement chaque personnage: les hommes autant que les femmes. (Aimer autant un homme et une femme est une épreuve capitale pour un cinéaste: elle consiste à traverser le miroir de ses goûts sexuels. Ce critère, si insolemment irrationnel, est à peu près le seul qui permette d'établir l'authenticité et la grandeur d'un cinéaste). Alors, les personnages ont leur relief, leur couleur, leur matière, leur nature: ils sont vraiment une infime partie de l'univers. La langue ordinaire du cinéma est, elle, nombrilique. Jean-Claude Biette Cahiers du Cinéma nº 374, julho/agosto 1985
sábado, 13 de fevereiro de 2010
La majesté du trivial
Il existe deux cinémas italiens dignes d'intérêts, d'une part un "cinéma d'auteur" fondé sur des sujets nouveaux, celui de Rossellini, Visconti, Antonioni, Fellini, Pasolini, Bertolucci, applaudit par la critique mais très longtemps boudé par le public italien, et l'autre part un cinéma fondé sur les conventions des genres, les filloni comme les appelle Oreste De Fornari, celui de Cottafavi, Bava, Matarazzo, Jacopetti, un cinéma méprisé par la critique transalpine, mais qui attire les foules.
À l'intérieur de ce cinéma filoni, Sergio Leone bat les records de provocation: alors que le cinéma italien lutte par tous les moyens contre l'invasion du film américain, Leone ne fait pratiquement que des westerns, tous ses films se situent en Amérique et sont tournés — pour l'essentiel du texte — en langue américaine. Alors que la qualité d'un film italien était souvent jugée en fonction de son poids de néoréalisme, Leone se moque de la réalité, même si elle l'inspire parfois et ne s'intéresse qu'au passé, jamais au présent. Le cinéma engagé fait loi, eh bien, qu'à cela ne tienne, Leone ne prend jamais parti. Leone ou le parfait traître du cinéma italien.
Et pourtant, — le livre de De Fornari le montre — ces deux cinémas ennemis ont des liens solides entre eux: Monicelli et Risi qui passent soudain du deuxième camp dans le premier, comme De Sica, lequel reviendra en fin de carrière au film de genre, Bertolucci qui collabore au scénario d'un Leone, Pasolini qui joue un western et fait tourner les deux comiques les plus débiles, Franchi et Ingrassia, Leone assistant et figurant de Voleur de bicyclette, Cottafavi qui passe du mélo et du péplum à l'adaptation de Conrad et des classiques grecs.
Et pourtant, ce cinéma des filoni se révèle souvent plus personnel, plus artiste, que le "cinéma d'auteur", trop souvent réduit maintenant à un velléitarisme plus ou moins gauchisant ou esthétisant (Scola, Brusati, Pontecorvo, Cavani, Bolognini, Petri, Vancini, Maselli, Lizzani, Zeffirelli, etc.). Avec son montage agressif, Leone demeure le principal héritier actuel d'Eisenstein, il rejoint le cinéma plus moderne, axé sur la durée: comme Rivette, Leone ne peut réussir un film que s'il fait au moins deux heures un quart. Ses premiers films étaient beaucoup trop courts, et ce n'est qu'avec Le Bon, la Brute et le Truand que Sergio Leone pourra vraiment devenir lui-même.
C'est qu'il y a chez lui une nouvelle conception du temps, qui fait l'essentiel de son génie, et qui est fondée sur sa dilatation.
Au-delà des différences soulignées par la quantité des spectateurs et par les étiquettes hâtives, on pense à Duras. Mais chez Duras, la dilatation du temps exprime la réalité quotidienne, matérielle ou morale. Alors que chez Leone, elle s'inscrit dans les genres, le film d’action, le western, où la rapidité est reine. Nouvelle provocation, plus grande que les provocations de Duras. Chez Leone, la vitesse existe, excessive, irréaliste: on tire plusieurs séries de coups de fusil en un clin-d'œil, mais seulement après un cérémonial invraisemblable de cinq minutes ponctué d'innombrables gros plans où il ne se passe rien, contraires à la logique narrative traditionnelle.
Ce rythme est contradictoire, tout comme le cumul constant de la trivialité et de la majesté. Nous ne sommes pas loin de Menotti et de son opéra du sordide. Rare exemple filmique d'une avant-garde comprise et adorée par le plus large public.
Œuvre admirable et précaire, comme celle de Syberberg ou de Jancso: elle dépend de la découverte de nouveaux principes formels, j'aillais écrire de martingales, dont l’intérêt peut s'épuiser assez vite, et l'on comprend mieux alors, chez Leone, sa peur de tourner.
LUC MOULLET