quinta-feira, 29 de dezembro de 2005

« Prima della rivoluzione », por Alberto Moravia

La parola come mezzo di comunicazione e di espressione sembra essere in decadenza o per lo meno in una fase di transizione che potrebbe anche preludere ad una riduzione definitiva del suo predominio; e l'immagine (televisione, cinema, fumetti, pubblicità ecc. ecc.) è in auge. Così abbiamo un numero crescente di scrittori o possibili scrittori che abbandonano la infida letteratura per il cinema; nonché scuole letterarie, come per esempio l'Ecole du regard francese, che si studiano di applicare nella letteratura i procedimenti cinematografici. Naturale quindi che Robbe-Grillet giri un film e che qui da noi Pasolini, nonostante il successo dei suoi romanzi, lasci la pagina per lo schermo.

Ma il caso di Bernardo Bertolucci è forse il più probante. Non si tratta infatti di una scoperta tardiva come nel caso di Pasolini bensì di un esordio ossia di una preferenza del tutto spontanea e nativa. Bertolucci che è poeta e sa che cosa può la parola, esordisce tuttavia come regista, mentre vent'anni fa avrebbe esordito come romanziere. Perché questo? Evidentemente perché egli ha sentito che la parola ancora valida e insostituibile nella poesia, non lo è altrettanto nella narrativa.

Finora il cinema aveva rubato al romanzo i territori ormai sfruttati del romanzo d'azione, di avventure, di intrigo; ma non pareva che potesse rivaleggiare con la narrativa nel campo dell'introspezione psicologica. Ora i film di alcuni giovani registi e, da ultimo, questo Dopo la rivoluzione (sic) di Bernardo Bertolucci ci fanno capire che anche per simili difficili e sottili argomenti, il romanzo domani potrebbe essere soppiantato dal cinema.

Bertolucci ha fatto chiaramente un film che è il romanzo che egli avrebbe scritto se avesse esordito vent'anni fa. Ci sono in Dopo la rivoluzione tutti i caratteri di un romanzo di educazione sentimentale: l'autobiografismo, il tentativo di inserimento di un caso personale nella Storia, il trasferimento dissociato ed estroverso dei propri sentimenti in altrettanti personaggi, l'identificazione dell'autore con l'eroe, l'idea di una durata che, al contrario di quanto avviene di solito nel cinema, non sia limitata al presente.

Dopo la rivoluzione, come dice il titolo vuol descrivere il riflusso e la stagnazione che seguono i grandi sommovimenti delle rivoluzioni. Bertolucci è parmigiano, Stendhal è, o almeno pare, sempre attuale a Parma: non è stato, dunque, difficile al nostro regista operare una contaminazione tra la rivoluzione dell'89 (libertaria, demoniaca e individualista) e la rivoluzione comunista (restauratrice dello Stato, collettivista e portata a risolvere i problemi della giustizia piuttosto che quelli della libertà); e tra i personaggi della Chartreuse de Parme e i propri. Così abbiamo Fabrizio, ossia Fabrizio del Dongo, giovane borghese con sentimenti e idee di sinistra, il quale sente sbollire e raffreddarsi nel proprio animo l'ardore rivoluzionario; e la bella e giovane ma nevrotica zia Gina, ossia Gina Sanseverino, di cui egli diventa per poco tempo l'amante, la quale, con la sua nevrastenia, si incarica di dare il colpo di grazia alla già vacillante fede politica del nipote. Ad un certo punto, Gina se ne va, torna a Milano dai suoi dottori psicanalisti, e Fabrizio, del tutto rassegnato e deluso ormai, sposa una bella e insipida fanciulla di nobile famiglia, rientrando così definitivamente in quella stessa società che nella sua adolescenza egli aveva sognato di distruggere.

Bernardo Bertolucci ha fatto un film coraggioso. Non diciamo coraggioso dal punto di vista ideologico o di contenuto; bensì dal punto di vista artistico. Avrebbe potuto come tanti servirsi del cinema come di un mezzo di evasione; se ne è servito invece come di un mezzo di conoscenza e di espressione strettamente personale. Il cinema mira più spesso a darci una descrizione del mondo che una descrizione di chi lo fa. Bertolucci, attraverso Dopo la rivoluzione, ha voluto darci una descrizione di se stesso. Donde le molte qualità del film, già presenti nel film a episodi precedente, qualità propriamente poetiche ossia di resa insieme precisa ed estrosa di particolari non indispensabili alla economia del racconto oppure anche di approccio non soltanto psicologico ai personaggi; e al tempo stesso alcuni difetti tra i quali, principale, quello di ripetere il già detto come chi non è mai abbastanza sicuro di essersi espresso con sufficiente chiarezza ed efficacia. Anche un certo abuso della parola che, secondo noi, al cinema andrebbe limitata allo stretto necessario, deriva da questo timore di non essere riuscito a spiegarsi completamente. Ma ogni volta che il regista, come nelle sequenze finali dell'opera e del matrimonio, riesce a dominare il dissidio tra la sua ispirazione e il mezzo espressivo di cui si serve, allora il suo tormentato ondeggiare tra cinema e letteratura si risolve e si fonde felicemente in immagini.

Tra gli interpreti, una menzione particolare merita soprattutto Adriana Asti che è Gina, la nevrotica zia milanese. Essa ha saputo darci un personaggio originale e senza convenzionalità tipiche, tutto giocato sulle mutevoli espressioni di una fisionomia oltremodo sensibile. Accanto a lei, va ricordato Francesco Barilli che è un efficace anche se un po’ troppo debole Fabrizio.

Per prima cosa dobbiamo correggere una svista in cui siamo incorsi nell'ultimo numero dell' “Espresso” occupandoci del film di Bernardo Bertolucci. Il titolo del film: Prima della rivoluzione e non Dopo la rivoluzione, come abbiamo erroneamente scritto. Siccome le sviste hanno sempre un motivo, magari inconscio, vogliamo spiegare perché ci siamo sbagliati. Il titolo di Bertolucci allude alla nota frase di Tayllerand: “Chi non ha conosciuto la vita prima della rivoluzione, non può sapere che cosa sia la dolcezza di vivere”. Ma a questo titolo, fa contrasto la falsariga della Chartreuse de Parme sulla quale il regista ha ricalcato la sua vicenda. Infatti: nel romanzo stendhaliano, come nel film, ci è descritto invece lo stato d'animo di “dopo” la rivoluzione, stato d'animo depresso e lontano da qualsiasi gioia di vivere. La contraddizione ironicamente intenzionale tra il titolo e contenuto del film ci ha indotti nell'errore.

Alberto Moravia, "L'Espresso", 18 e 25/10/1964

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